Quella cosa invisibile (e difficilissima) che chiamiamo semplicità

abby covert | ia | architettura informazione

Quando ero più giovane mia madre mi affibbiava un nomignolo a dir poco geniale: UCAS. Era la sigla di Ufficio Complicazione Affari Semplici e la dice gran lunga sulla mia naturale attrazione per il caos e per la tendenza, anch’essa naturale, a complicare le cose più semplici con spiegazioni articolate che puntualmente sbattevano il naso quando mi veniva fornita una strada più semplice – quella illuminata e introdotta da un suono che sapeva di rivelazione e di retta via (e che mi piace immaginare simile all’audiologo di HBO).

Col tempo ho scoperto che questo complicarmi la vita non era solo affar mio. È pratica comune per noi umani impegolarci per la strada più impervia, quella con più fermate, quella con la direzione più opaca. Forse siamo in verità grandi amanti del brivido, o forse, come direbbe Nanni Moretti, stiamo semplicemente continuando a farci del male.

La nemesi dell’UCAS è anch’essa una sigla: IA – Information Architecture (architettura dell’informazione), ossia un tipo di processo che organizza la struttura dei contenuti in modo chiaro, efficace e coerente.

Un’architettura dell’informazione umana (troppo umana)

C’è una cosa che mi fa impazzire dell’IA. Se dovessi abbinarla a un supereroe, direi senza dubbio Batman che poi era l’unico a non avere proprio superpoteri. Ecco: l’IA non ha raggi missili, ragnatele, non vola. L’IA è umana, anche troppo umana.

Lo dice anche Abby Covert che sull’architettura dell’informazione ci ha fatto un libro che è una specie di bibbia e si chiama How to Make Sense of Any Mess. “È normale che la visione dell’architetto dell’informazione sia sfocata e ingarbugliata” – scrive Covert. E aggiunge una cosa importantissima: “Ciò che è buono per una persona può essere profondamente sbagliato per un’altra anche se lo scopo è comune. Ognuno di noi vive in un apparato unico di contraddizioni ed esperienze che danno forma alla visione del mondo.” E mi permetto di aggiungere: a come ci relazioniamo alle informazioni, ai contenuti e alle loro strutture.

Non esiste perciò un unico modo di risolvere un garbuglio: anche la definizione data nel paragrafo precedente di IA è da spiegare: “chiaro, efficace e coerente” per l’utente, per le persone coinvolte in un progetto di contenuti, per il contesto in cui il progetto si inserisce.

A cosa ci aggrappiamo se tutto è soggettivo

Lo scenario che ogni architetto dell’informazione si trova davanti è questo: le persone sono creature complesse, così come ogni singola cosa nell’universo. Il caos è formato dalle informazioni e dal modo con cui ognuno di noi lo approccia. Riuscire a trovare una direzione attraverso il caos, la confusione e la complessità è tuttavia qualcosa che tutti noi abbiamo in comune. A corredo di ciò, una considerazione: parole come giusto o sbagliato sono completamente soggettive. E anche la percezione, come la verità, lo è.

E allora come è possibile fare senso intorno a noi e rendere tutto più semplice?

Attraverso un’analisi condivisa, una messa in dubbio degli assunti e uno scavo in profondità per determinare cosa è buono e cosa non lo è per il nostro progetto.

Dare una forma al caos è un processo che passa attraverso la connessione tra il perché, primo motore immobile di ogni progetto, il cosa (ovvero la direzione da prendere e della sua ricaduta a tutti i livelli del progetto) e il come quella direzione verrà organizzata. E che incontra modelli mentali, diagrammi, sequenze, strutture, classificazioni.

Ma è col linguaggio condiviso che l’IA illumina lo spazio infinito e crea luoghi. Attraverso un vocabolario controllato, l’IA elimina l’insicurezza linguistica e doma il caos.

Scrive Abby Covert: “Le parole che scegliamo sono importanti. Rappresentano le idee che vogliamo far emergere nel mondo. Abbiamo bisogno delle parole per pianificare. Abbiamo bisogno delle parole per trasformare le idee in cose”.

Se funziona, è invisibile. Ma è difficilissima.

Ricordiamolo: l’IA non è mai il risultato finale ma uno dei tanti passaggi di progettazione dei contenuti. Il suo è un ruolo di filtro tra i detriti e il senso, una cornice che dona ordine, fa accedere alle informazioni importanti e offre all’utente la più semplice customer journey.

La regola generale è che l’utente non la nota se trova subito l’informazione che cerca all’interno di una struttura. Diversamente, è la prima cosa che salta all’occhio e fa dire, quasi in tono sprezzante, che un sito è fatto male. Ma, come tutti i processi di senso, è paradossalmente difficile. È difficile ammettere che un elemento, per quanto bellissimo, non serve a nulla o anzi, crea confusione. È difficile trovare le parole per dire che qualcosa è sbagliato, essere onesti, sistemarlo. È difficile collaborare, prendere decisioni che vadano bene a tutti, fare domande, sentirsi criticati, ricominciare tutto da capo.

È dannatamente difficile sì, ma cavolo, farebbe venire un sorrisone a chiunque dipanare una massa piena di nodi e di informazioni. E, finalmente, comunicare con un linguaggio che ha senso – per te e per gli altri.

Un talk di Abby Covert, l’autrice del libro menzionato nella lettera, in cui il consiglio – che poi è il titolo del libro – “How to Make Sense of Any Mess” viene portato nell’ambito creativo.

Un podcast sulla UX. Quale occasione migliore di questi giorni barricati a casa per iniziare ad ascoltare i maggiori player e autori di libri sulla User Experience?

Una playlist su Spotify creata ad hoc con canzoni piccole e bellissime che ben si abbinano col mood delle “cose semplici”.

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