In realtà, il vero pericolo da evitare, quando si parla di comunicazione sul web, è perdere di vista la centralità del brand e il suo posizionamento.

Servizi su servizi, a partire dai servizi: il dramma dell’appiattimento

Rischio per niente astratto, càpita più di quanto siamo disposti ad ammettere, questo inciampo, con l’agenzia di comunicazione pronta a offrire servizi su servizi e microservizi senza badare al brand, travolta dalla voglia di arricchire portafoglio e portfolio. Il pericolo vero è questo. Però si può evitare. Così tutti lavorano bene e sono contenti. Sia il brand, sia l’agenzia.

Prendere in carico la comunicazione di una marca è sempre una cosa un po’ delicata. Per così dire, si cerca di rimanere comodi. Di non far danni, di non esporsi, ci si sforza di rimanere all’interno di una comfort zone senza lode e senza infamia, ci si limita a offrire servizi. Finché non si arriva al punto che il brand, a suo modo, barcolla.

La brand advocacy non ce la fa più, tutto diventa più svogliato, come quando guardi lo stesso film ogni giorno. Detta così sembra una tragedia. E in effetti lo è.

Il dramma della monotonia.

Questo atteggiamento di comoda comodità ha indotto i brand a convincersi che la comfort zone sia il terreno di gioco migliore per vincere la partita della comunicazione e farsi notare – senza considerare che, senza giri di parole, si sta gareggiando nel Campionato dei mediocri per vincere il premio di Meno peggio fra i mediocri.

Questa comfort zone delle agenzie ha risucchiato anche i brand e così siamo finiti in una centrifuga di richieste di servizi dove uno vale l’altro e non importa da chi viene offerto – e si gareggia per darne di più allo stesso prezzo.

Ecco, questa cosa, in Caroselling, cerchiamo di non farla. Anzi, non la facciamo proprio. Perché è sbagliato.

Crediamo alla centralità del brand sopra ogni cosa.

Partiamo dal brand, sempre. Lo accompagniamo in un percorso di consapevolezza e di crescita e poi, solo poi, lo aiutiamo con i servizi strettamente necessari alla valorizzazione della sua comunicazione.

Volendo semplificare, possiamo dire che, in realtà ci sarebbe un solo servizio da offrire e da tutto poi si snoda, si plasma, si dirama: la comunicazione della marca.

Ed è un servizio che inizia dal non chiamare i brand ‘clienti’, ma ‘partner’. Perché è solo entrando in vera sinergia con la marca, con le sue dinamiche interne ed esterne, le sue storie, le sue avventure, i suoi problemi, il suo background, i suoi valori, i suoi punti di vista, le persone che la circondano, solo tuffandosi a capofitto nel suo mondo possiamo comunicarla, darle valore e risalto.

Uscire dalla comfort zone di un “Si è sempre fatto così” ed entrare in un nuovo scenario consapevole di “È necessario cambiare”.

Una volta che sei entrato così dentro la realtà di più partner, sarebbe non professionale iniziare a trattarli differentemente in base al budget che mettono a disposizione. Dividere i partner per fatturato è come quando i bambini mandano più bacini a chi gli offre più caramelle: il tempo di una nanna e tutto è dimenticato, si torna a cercare nuovi dolcetti.

Si parte sempre dalla marca, dalla sua identità.

Si prende una posizione netta nei suoi confronti, una sorta di patto di parternariato: si lavora insieme per crescere insieme, senza star lì a fare la conta dei servizi come fossero figurini (questo sì, questo no, questo sì, questo sì, questo no). È vero, fare così potrebbe comportare non prendere qualche partner. Pazienza. Vuol dire che non c’erano i presupposti, che non ci saremmo piaciuti. È una barriera di ingresso sia per noi che per il brand: capisci subito se siamo fatti l’uno per l’altro, oppure no.

Fuori è tutto un ammasso di agenzie che si fanno la guerra a colpi di servizi, pacchetti, portfolio. A noi piace convivere con brand illuminati, che non si lasciano suggestionare da un cingolato di servizi.

Peace and work.

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