“Se qualcosa ci salverà, sarà la bellezza”

(Ettore Sottsass, Scritti. Avvalorando Dostoevskij, Milano 2001)

La prima volta che incontrai Ettore Sottsass era il 1997, io avevo 18 anni e lui 70, io ero in carne e ossa in un edificio scolastico dalla formazione tecnica e dall’architettura fascista e lui soggiornava sornione nel volume monografico che stavo sfogliando. Da allora non l’ho mai dimenticato, rincontrandolo più volte nei libri e nelle sue architetture e frequentazioni cartacee fino alla splendida mostra della Triennale l’anno scorso. Ora ci frequentiamo tramite il catalogo della mostra, curato in modo meraviglioso dalla compagna Barbara Radice. 

Ettore Sottsass, architetto, designer, pittore, scultore, fotografo, essere umano prima di tutto, nasce nel ’17 in Austria, a Innsbruck, si laurea in Architettura al Politecnico di Torino per poi lavorare prevalentemente a Milano.

Ha imperversato in tutte le discipline, architettura, pittura, letteratura e soprattutto la vita, oltrepassandole tutte trasversalmente. È difficile infatti inquadrare Sottsass in una disciplina soltanto, amava definirsi essenzialmente un architetto, ma fu anche molto altro non fermandosi mai ai confini, sia della catalogazione che della sua diversissima e vastissima opera.

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Magia e identità

“Per Sottsass i passaggi tra le espressioni artistiche sono fluidi, non esistono linee di demarcazione tra scultura, pittura, architettura, design.

Sottsass ha da tempo superato questi confini … Il suo potenziale creativo architettonico non è stato né viene percepito a sufficienza.

Sottsass è un mago.

Senza Sottsass la nostra vita sarebbe incolore”.

(Ettore Sottsass. Pensiero disegnato, prefazione di Hans Hollein, Vienna, 16 gennaio 2005)

Sottsass si rifiutò sempre, sia a parole che con le sue opere, di inserirsi in un contesto solo, di registrarsi, di ritrarsi nel solo modo riconoscibile dal suo tempo.

Visse e operò convinto che l’architettura e la struttura di sé stessi dovesse essere prima di tutto un atto politico senza politica, reagendo agli stili, crescendo cercando la sensorialità (“inseguivo la commozione” disse in un’intervista su Repubblica), non fermandosi a una semplice idolatria di passaggio.

Scrive di lui Alessandro Mendini: “Gli interessa poco pensare al futuro, perché la vita non è determinata dai programmi. Fa finta di non sapere che in tutto il mondo copiano il suo lavoro. Le culture che cita sono poco organizzate, non ancora intellettualizzate, oppure antichissime. Ama le architetture classiche, le città-tempio, i grattacieli. Il suo ruolo storico è quello di aver aperto il primo contraddittorio culturale, operativo e linguistico ai modelli del funzionalismo, di essere divenuto il perno attorno a cui hanno gravitato tutti coloro che cercano una architettura più libera. Per lui progettare non è questione di ideologia, di ortodossia, ma è un fenomeno sensitivo, una ricerca d’identità”.

(La seduzione, E. Sottsass più Munari, Ed. Arca, Lavis (TN), 2002)

La vita è il più grande atto politico

Ed ecco che è la vita piegata alla propria visione e trasversale a tutte le discipline che rappresenta l’unico filo conduttore di un’esistenza di prove e fallimenti e ancora prove e successi, una costante reazione alla statica dell’abitudine con sensorialità pura. E, in un’antropologia sovrilluminata che non possa fare a meno della luce per andare avanti, in piedi o in ginocchio, comunque aggrappata al movimento e fuori da ogni intellettualizzazione non c’è atto più politico di vivere, attaccati alla vita, sconfiggendo la mortalità con le proprie opere, evitando il culto e mai occultandosi, in un’etica che racchiude l’intero mondo con all’interno sé stessi.

Tensione e Letteratura

“La mia preoccupazione, in questo momento, è disegnare oggetti che non abbiano confini precisi, dal punto di vista ‘biologico’ o culturale. Oggetti che … accolgano l’indecisione che c’è nel mondo. È un tentativo continuo di aggiornamento, di capire cosa sta succedendo. Non si tratta di rimanere giovani, ma di restare in tensione con il mondo.

(Ettore Sottsass. Ritratti di coppia, “Domus”, n. 888, gennaio 2006)

Un rapporto con la letteratura specifico lo lega ai poeti della Beat Generation, incontra infatti nel corso della sua vita molti di essi a San Francisco: Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti, Neil Cassady, Gregory Corso, e soprattutto Ginsberg. E proprio Howl (L’Urlo) rappresenta il manifesto di una sensorialità pura e incontaminata che nasce e fa nascere cose laddove era impensabile ci fossero semi radici e sotto strutture.

Frequentò Hemingway, grazie alla moglie Fernanda Pivano, grande amica dello scrittore americano, colei che visse vita e poesia in un tutt’uno per tutta la vita, tutto e tutto quanto per sfuggire il misurabile, per cogliere l’indefinibile che colpisce, squarciando la coltre di nebbia perfetta del razionalismo, affinché tutto vada in pezzi.

Alla memoria del Design

“I veri maestri ti danno dei perimetri. Poi sei tu che devi muoverti, lì dentro”.

Ed è con questo spirito che Ettore crea e disegna la macchina da scrivere portatile Valentina per Adriano Olivetti come pure la macchina per scrivere Praxis 48, la calcolatrice Logos 27, il televisore Memphis per Brionvega, il computer Elea 9003, numerosissimi tavoli, librerie, sedie, specchi.

Nel 1981 fonda il Gruppo Memphis attraversando con un proiettile dalla traiettoria possibilista l’arte, lo spazialismo, la cultura Pop, il postmoderno, il razionalismo, la Pop Art, la Beat Culture, il Movimento Arte Concreta, vincendo 4 Compassi d’Oro e vivendo 90 anni di ipertensione creativa senza confini e di contagio stilistico.

Una ricerca della bellezza dissonante e non reindossabile, che perseguita geneticamente in modo estenuante, ricercando coordinate e poi infrangendole, lasciando i Maestri appesi a faccia in giù nelle macellerie industriali degli altari alla memoria del Design, per poi disfarsene, imparare, imparare, senza mai insegnare.

E soprattutto precipitare, facendo precipitare le idee monoliti, quelle precostituite per principio, da tagliare incollare e traslare come un cut-up burroughsiano.

Fin dentro la vita

«Vorrei che i visitatori uscissero piangendo, vale a dire con un’emozione».

(Sottsass alla presentazione della sua mostra Vorrei sapere perché, a Trieste).

Sottsass lo sciamano schivo, che ci ha lasciato fra le sue creazioni il più grande tesoro da conservare: «Per me, il design è un modo di discutere la vita. È un modo di discutere la società, la politica, l’erotismo, il cibo e persino il design. È un modo di costruire una metafora della vita. Per cui, se devi insegnare qualcosa sul design, devi insegnare prima di tutto qualcosa sulla vita».

Stimolato da varie discipline si reinventò continuamente pur mantenendo la sua preziosa libertà senza sofisticazioni, senza organismi politici religiosi culturali a bloccarlo nell’una o nell’altra barricata.

E se è la vita che si deve vivere, sia un insieme di frammenti e di immediatezza, di sensazioni e di qui e ora, di possibilità che sconfiggono le impossibilità, di critica ignorata e di letteratura con cui dialogare su e giù dalle superfici delle costruzioni di architettura e degli scatti fotografici su cui edificare sensazioni e memoria, frammenti, frammenti ancora, Sottsass: architettura e design, fin dentro la vita.

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