Troviamoci e facciamo gruppo. Meglio se in una microcommunity.

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Da qualche tempo c’è qualcosa di strano nel mio feed di Facebook: noto sempre meno post di amici o di pagine aziendali, e sempre più interventi provenienti da gruppi, chiusi o privati, a cui sono iscritta.

Sono gruppi piccoli, a volte i membri non superano le poche centinaia. L’aria che si respira ricorda, per chi c’era, l’Internet della fine degli anni ‘90 con mailing list e forum: toni allegri, voglia di aiutarsi e collaborazione. Gli screzi, pochi, sono intercettati e moderati subito da admin attenti e puntuali; gli hater sono quasi scomparsi e, quando fanno capolino, prontamente bannati. La domanda nasce spontanea: è forse questo l’internet migliore che ci aspettiamo?

“The future is private” – e se lo dice Zuckerberg…

Senza dubbio ci sono delle congiunzioni astrali che stanno portando le conversazioni social a questa inversione di rotta e a imboccare una direzione più di nicchia. Partiamo da lui, il nostro caro amico-nemico Mark Zuckerberg che nel 2019 annuncia, alla vigilia dell’unione di Messenger, Instagram e WhatsApp, che il futuro dei social è privato. Una mossa da vecchio volpone, certo, che porta sotto i riflettori i canali privati e mette pressione ai Brand.

Il 2019 è parallelamente l’anno in cui la richiesta del mercato globale di un’esperienza social più intima si fa pressante in modo evidente: lontani dai feed pubblici sempre più impersonali, rumorosi o governati da algoritmi, i consumatori reclamano a gran voce uno spazio che dia davvero valore alla conversazione e che permetta, inoltre, di intrattenere scambi personali su canali privati.

L’interazione nei gruppi Facebook a suon di badge

L’ascesa dei gruppi Facebook e dei canali privati è vista quindi come una risposta alla ricerca di luoghi di diversity e pluralità multidirezionale delle voci.

E ha degli elementi che strappano più di un sorriso: nei gruppi Facebook, ad esempio, sono presenti delle dinamiche ramificate di interazione che contraddistinguono e differenziano i membri. C’è chi diventa membro fondatore perché ha contribuito a far crescere il gruppo (lo si riconosce dal badge con la piantina), chi si è appena iscritto ed è un nuovo membro (badge manina), chi crea di sovente contenuti visuali (badge icona immagine) e chi avvia con una certa frequenza conversazioni interessanti (badge caffè). E, ti assicuro, quando si accendono i badge, è come aver ricevuto una sostanziosa ma gentilissima pacca sulla spalla. Well done, champ.

Community micro, senso di fiducia enorme

Il bisogno di uno spazio privato per conversazioni one-to-one è stato recentemente sottolineato dal longform sugli UX Trends per il 2020 che indica proprio le microcommunity come fenomeno da tenere sott’occhio. Non solo: in un libro che ho letto il mese scorso ho trovato dei passaggi interessanti. Il titolo è Get Together: how to build a community with your people ed è scritto a sei mani da tre dei più famosi community experts al mondo (le loro esperienze a Instagram, Facebook e Creative Mornings parlano più di qualsiasi presentazione).

In Get Together si evidenzia come “più ricco è lo scambio 1:1 tra membri, più forte è la comunità” e ancora “per incoraggiare relazioni 1:1 all’interno della comunità, è necessario creare spazio in cui i membri possano legare tra di loro con i loro tempi”. Facile intuire il motivo: i gruppi più piccoli sono percepiti come uno spazio sicuro a livello psicologico. E lo spazio sicuro è il collante sociale che crea voglia di interagire, dialogare e ripetere l’esperienza.

Ecco la marcia in più delle microcommunity: un ambiente dall’usabilità immediata, con una moderazione piena di cura e dedizione degli admin e una partecipazione entusiastica dei membri. E che, all’interno della logica delle piccole community specializzate o degli eventi, locali e non, si traduca in un ambiente autentico e intimo, capace di ispirare una fiducia non comune.

E che inviti, ancora una volta, contro ogni logica commerciale, a restare umani.

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