Bartleby, Montale e l’importanza dei no nella comunicazione

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Viviamo nell’epoca del produrre e del sognare, delle magnifiche sorti e progressive e dello slancio vitale del lavoro a ogni ora. Del teatro dell’assurdo e delle idee a tutti i costi e fine a se stesse. Del maledetto trittico di “tradizione, innovazione, passione” a cui manca solo una cosa: l’alienazione. E quando c’è lei, c’è bruttura, inquietudine e disagio. L’unico rimedio è volgere lo sguardo alla bellezza della letteratura che della comunicazione è nutrimento e luce.

A chi dice di fare, fare e fare e a chi a quel fare ha costruito un altare, io voglio rispondere come Bartleby lo scrivano, racconto di H. Melville (l’autore di Moby Dick) del 1853: preferirei di no.

Preferirei di no

Preferirei di no non ha nulla a che vedere con un disfattismo spicciolo e con un rifiuto cocciuto che tradisce una pigrizia patologica. Preferirei di no in me risuona come un voglio fare tutto il possibile per fare il meno possibile il meglio possibile. Ed è una piccola, minuscola, rivoluzione. Ammettilo: preferiresti non partecipare a incontri con troppe persone che non sanno nulla dell’ordine del giorno. Preferiresti non dover fare il gradasso per uscir vincitore da un brainstorming senza direzione. Preferiresti di gran lunga non lavorare su un brief inesistente che dice tutto e dice nulla.

Eppure, ogni giorno, è una lotta. E allora che lotta sia, e quella vera. Quella a suon di no, grazie. Resistere al gioco crudele dell’iper-produzione e del problem-solving al cardiopalma. Opporsi alla saturazione, all’accumulo, al mettere sempre più carne al fuoco, all’abisso vertiginoso delle possibilità.

Se questo preferirei di no ti suona come una sconfitta, ben, non posso sicuramente darti torto: è l’alienazione umana e professionale conclamata, manifesto programmatico della volontà di non aderire alla società come scrivano né tantomeno come essere umano. Tuttavia Bartleby, rifiutandosi, a suo modo compie un’azione che è una reazione: è un fare che si muove lontano dalle dinamiche in cui si muovono i suoi simili. È un fare che parte dalla necessità di tracciare un confine. È un fare che pone delle condizioni.

La comunicazione non è fatta di formule magiche

Lo dice bene Montale nell’ultima strofa della poesia “Non chiederci la parola”, una strofa che dovrebbe essere stampata, incorniciata e messa sulla scrivania di ogni copywriter (che poi è la versione attuale della professione di Bartleby, lo scrivano, appunto):

“Non domandarci la formula che mondi possa aprirti

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

A volte la comunicazione non serve per affermare qualcosa ma per negare qualcos’altro. Definire quello che non si è per poi arrivare a ciò che si è. Togliere parole e intere frasi, avere una coscienza in negativo che gioca di sottrazione e arriva al cuore pulsante della materia. La comunicazione non è mai fatta di formule magiche che aprono mondi (“e dai, cosa ci metti a farmi un concept”) ma avanza con sillabe storte e secche, tentativi, navigazioni nell’impossibile. E rifiuti. Il meno possibile, il meglio possibile.

Questo solo possiamo dirti oggi. Questo solo possiamo darti oggi.

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